Il licenziamento per fine appalto rientra nella categoria del giustificato motivo oggettivo, ossia tra i provvedimenti di licenziamento alla base dei quali risiede un motivo legato alla riorganizzazione aziendale.
In caso di licenziamenti per giustificato motivo oggettivo la legge prevede l’obbligo di ripescaggio da parte del datore di lavoro, che ha il dovere di ricollocare, quando è possibile, all’interno dell’azienda il dipendente licenziato, assegnandogli mansioni compatibili con il suo livello di inquadramento.
La Corte di Cassazione ha stabilito, con la sentenza 19842/10, che per licenziare un dipendente il cui posto di lavoro è stato soppresso a causa del ritiro di una commessa, il datore di lavoro deve dimostrare l’impossibilità di ricollocarlo in altri appalti, anche se in una sede diversa da quella in cui era impiegato.
I licenziamenti per giustificato motivo oggettivo sono considerati illegittimi se motivati da ragioni discriminatorie o per fatti avvenuti fuori dal posto di lavoro. È bene precisare che le conseguenze di un licenziamento illegittimo si distinguono a seconda che l’azienda in cui è assunto il dipendente conti piò o meno di quindici dipendenti.
In caso di illegittimo licenziamento per fine appalto in un’azienda con meno di 15 dipendenti il giudice annulla il licenziamento, condannando il datore di lavoro a reintegrare il dipendente, o in caso non vi sia la possibilità di reinserirlo nell’organico dell’azienda a versargli un risarcimento economico.
Se invece l’impresa conta più di 15 dipendenti, l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori stabilisce che se non ricorrono gli estremi del giustificato motivo oggettivo per insussistenza del fatto, il dipendente viene reintegrato nel posto di lavoro e riceve un indennizzo il cui importo può arrivare fino a dodici mensilità. Il dipendente ha inoltre diritto al versamento dei contributi previdenziali per tutto il periodo di assenza dal lavoro.
Per quanto riguarda le altre ipotesi in cui non vi sono gli estremi del giustificato motivo oggettivo, il giudice condanna il datore al pagamento di un’indennità risarcitoria in una misura compresa fra 12 e 24 mensilità della retribuzione globale di fatto.