Il licenziamento discriminatorio consiste nella risoluzione del rapporto di lavoro, da parte del datore, a causa di alcune caratteristiche legate alle sue idee politiche del lavoratore o alla sua razza, religione, lingua, ecc. Il licenziamento ritorsivo invece si configura come una vera e propria vendetta nei confronti del dipendente. Queste sono le due differenze di maggiore rilievo, ma vediamo quali sono le istanze di applicazione, ma anche rischi e opportunità per dipendenti e datori di lavoro.
Il licenziamento ritorsivo è da considerarsi nullo quando il motivo ritorsivo alla base della cessazione del rapporto di lavoro è l’unico ad averne determinato la fine. In questo caso, infatti, il licenziamento costituisce un’ingiusta ed arbitraria reazione ad un comportamento legittimo tenuto dal lavoratore o da una terza persona a lui legata.
Il licenziamento ritorsivo illegittimo ha matrice individuale e personale. Sul lavoratore incombe l’onere della prova sulla natura ritrosiva dell’atto. Con la sentenza n. 14319 del 6 giugno 2013,la corte di cassazione ha stabilito che spetta al dipendente licenziato dimostrare, con elementi specifici, l’intento di rappresaglia del datore di lavoro.
Di conseguenza in sede di giudizio di legittimità, chi intende dimostrare un licenziamento ritorsivo illegittimo non può limitarsi a dedurre la mancata considerazione, da parte della magistratura, di circostanze che in astratto possono essere rilevanti ai fini della ritorsione. Questi, infatti, deve chiaramente indicare degli elementi idonei ad individuare l’effettiva sussistenza di un rapporto di causalità tra il fatto e il licenziamento.