L’ordinamento italiano prevede che il recesso da parte del datore di lavoro deve essere sorretto da una motivazione valida (giusta causa, giustificato motivo oggettivo o giustificato motivo soggettivo). Tuttavia questa regola generale non si applica in alcune limitate ipotesi, in cui il datore di lavoro non è tenuto ad asserire o dimostrare nulla per interrompere il rapporto con il dipendente.
In queste situazioni si parla di recesso ad nutum, ossia senza motivazione. In base a quanto definito dall’art. 2118 del Codice Civile, ciascuna delle due parti può recedere dal contratto di lavoro a tempo indeterminato, a patto che fornisca una adeguato preavviso.
In mancanza di preavviso, il recedente è tenuto a pagare all’altra parte un’indennità pari all’importo della retribuzione che sarebbe spettata al dipendente per il periodo di preavviso. Indennità che in caso di cessazione del rapporto per morte del dipendente, è dovuta dal datore di lavoro.
Nel corso degli anni la possibilità per il datore di lavoro di recedere ad nutum si è sensibilmente ridotta. In seguito alle modifiche apportate con la legge n. 108/1990 infatti al datore di lavoro ha la facoltà di licenziare senza comunicarne al dipendente la decisione per iscritto, e senza motivarla, solo per le seguenti tipologie di contratto.
Nei casi in cui è consentito, il licenziamento ad nutum può essere esercitato esclusivamente nei confronti di dipendenti assunti con contratto di lavoro a tempo indeterminato. Il datore di lavoro risolve ad nutum un contratto a termine è tenuto a risarcire i danni al dipendente licenziato.
Va tuttavia precisato che il licenziamento ad nutum, anche nei casi sopracitati, è nullo se il lavoratore dimostra che in realtà si tratta di licenziamento illecito, poiché intimato per ragioni discriminatorie di tipo religioso, sindacale, politico, razziale, di lingua o di sesso.