“Un gigante dai piedi d’argilla”. È così che Michele Tiraboschi, coordinatore scientifico del centro studi Adapt e docente di diritto del lavoro all’università di Modena e Reggio Emilia, ha definito l’Agenzia per le politiche attive del lavoro introdotta dal Jobs Act.
Facilitando il reinserimento nel mondo del lavoro, l’Anpal sarebbe dovuta essere il cavallo di battaglia della riforma del lavoro, ma secondo Tiraboschi il progetto non è all’altezza delle promesse. Sembra infatti che, invece di favorire il reintegro di chi si ritrova senza lavoro, il decreto che crea l’Agenzia cancelli uno strumento utile per i disoccupati, ossia il contratto di ricollocazione.
All’alba della riforma, il governo aveva dichiarato che l’obiettivo era rendere più flessibile il mercato del lavoro, tutelando però chi avrebbe perso il posto con interventi volti a favorire occupazione e reinserimento lavorativo. Strumenti che, a detta del giuslavorista, non sono previsti dal decreto attuativo.
“Tutta la parte che serve ad avvicinare offerta e domanda di lavoro non c’è” dice Tiraboschi, spiegando che il decreto è orientato quasi esclusivamente sulla struttura dell’Agenzia (definendo chi andrà a ricoprire il ruolo di presidente, direttore, ecc.). Scarseggiano però le norme relative all’applicazione delle politiche attive. Insomma, un decreto che sembra non aderire affatto al progetto inziale del Jobs Act.
A sostegno di questa tesi, Tiraboschi porta l’esempio del pastrocchio sul contratto di ricollocazione, che nelle intenzioni del governo avrebbe dovuto favorire il reinserimento lavorativo. Presentandosi al centro per l’impiego il disoccupato avrebbe ricevuto una dote economica con cui pagare un’agenzia per il lavoro, che gli avrebbe fatto firmare il contratto vero e proprio.
A questo punto il soggetto sarebbe stato affiancato da un tutor che lo avrebbe aiutato a cercare una nuova occupazione. Per incentivare la ricollocazione, l’agenzia avrebbe ottenuto una parte del budget al momento della presa in carico e la restante (ben più alta) solo a risultato ottenuto. La storia di questo strumento, che sembrava avere buone chance di successo, è stata stroncata sul nascere.
Il contratto di ricollocazione è stato, infatti, introdotto il 24 dicembre 2014, con il decreto sulle tutele crescenti, ma a breve sarà cancellato dal decreto sulle politiche attive. Al suo posto verrà inserito un assegno di ricollocazione. Strumento che Tiraboschi definisce “più debole e opaco”.
Mentre oggi il contratto di ricollocazione è un diritto per tutti i soggetti che si trovano senza lavoro, l’assegno spetterà solo a chi è disoccupato da più di sei mesi. Un intervento che, come precisa la legge, è previsto nei limiti delle risorse disponibili, attualmente pari a poco meno di 60 milioni di euro. Una somma che non basterà nemmeno per 20 mila persone. Meno dello 0,6% dei 3,4 milioni di disoccupati in Italia.