Era previsto nella delega del Jobs Act, ma è stato poi eliminato con i decreti attuativi. Eppure il salario minimo poteva essere un ottimo strumento per contrastare l’aumento della povertà in Italia. Attualmente, lo ricordiamo, nel nostro paese il salario minimo viene stabilito tramite contrattazione e poi inserito nei contratti collettivi nazionali. Una situazione che porta a grandi differenze tra i minimi contrattuali, dovute principalmente in base alla produttività del settore in cui si è assunti.
Va precisato però che anche se la delega non fosse stata soppressa con i decreti di applicazione, il Jobs Act prevedeva solo un intervento solo sui settori non coperti dalla contrattazione collettiva, senza quindi andare a toccare i minimi per settore già vigenti.
Il sistema di decentralizzazione per settore attualmente in vigore risulta però insufficiente a garantire un sostegno al reddito a tutti i lavoratori e dunque inefficace a contrastare la diffusione della povertà. Stando a quanto riportato dall’Istat, a maggio 2015 i contratti collettivi nazionali coprivano solo il 59,7% dei lavoratori dipendenti.
Tuttavia, in base ai principi espressi nell’articolo 36 della Costituzione, i CCNL sono stati spesso estesi anche ai lavoratori che non ne sono formalmente tutelati, ossia a quanti non sono iscritti ai sindacati né fanno parte dei settori coperti da contrattazione. È difficile quindi rilevare la quota di occupati effettivamente inclusi nel sistema della contrattazione. Secondo una stima dell’Eurofound sarebbe di circa l’80%.
Ma cosa succede per il restante 20%? Molte imprese, soprattutto PMI, non si avvalgono della contrattazione nazionale, e di conseguenza non ne rispettano il salario minimo. Sono escluse dai minimi dei CCNL anche diverse forme di lavoro precario e parasubordinato, oltre, ovviamente, al lavoro nero.
Ci sono addirittura settori, come l’edilizia, l’agricoltura e il turismo, in cui il salario mediano è al di sotto di quello minimo. Esaminando i dati Eurostat sull’incidenza della povertà, si nota chiaramente che c’è stato un largo vuoto salariale: nel 2013 in Italia, il 10,6% dei lavoratori era a rischio povertà, cioè percepiva un reddito inferiore al 60% del valore mediano nazionale.
Se si prendono in considerazione i dati inerenti a dipendenti a tempo determinato, la quota cresce per i giovani e gli stranieri. Si potrebbe quindi ipotizzare che il basso livello salariale sia legato non solo a una minore produttività del settore, ma anche a una mancanza di rappresentanza e di potere contrattuale dei dipendenti.
Proprio per questo l’eliminazione del salario minimo dal Jobs Act è stata senza dubbio una delusione per molti lavoratori, che avevano riposto le proprie speranze nella riforma del lavoro condotta dal governo Renzi. In un contesto in cui il datore di lavoro riesce a imporre una bassa retribuzione, un salario minimo può solo introdurre maggiore equità.